Psicologia dell’emergenza

Terremoto in Abruzzo, 2009

Ricomporre l’infranto.

La telefonata di Ada mise fine alle mie vacanze di Pasqua.
C’era stato il terremoto in Abruzzo, la prima squadra SIPEM era già partita con la Protezione Civile; bisognava dare il cambio entro una settimana. Ada voleva andarci e aveva trovato solo me. Riuscì a contagiarmi al punto che avevo solo l’ansia di correre lì anch’io. Partii. Un mezzo della Protezione Civile di Parma ci portò al campo cui era stata assegnata la nostra squadra. Con Ada eravamo in una grande tenda a più letti; di notte nel silenzio si sentiva il suono del generatore. Ad un tratto mi svegliai con la consapevolezza di 300 bare allineate da qualche parte. Cifra tonda, che aumentava di poco quella che risultava allora, come per una elaborazione mitica per significare “molte”, cioè troppe.

Di giorno davo una mano agli scout, che cercavano di organizzare la vita dei bambini, che altrimenti scorrazzavano per il campo; ma non era libertà: semplicemente l’organizzazione scolastica e famigliare erano saltate. Ogni giorno arrivavano camion pieni di peluches: forse tanti bambini avevano destinato il loro ad un piccolo terremotato. Ma al campo diventavano feticci che si accumulavano nelle tende, risarcimento generico per tutto quello che si era perduto. Chi li portava voleva darli personalmente ai bambini, vedere i sorrisi sui loro volti. E’difficile spiegare alle persone benintenzionate i motivi per cui i soccorsi devono essere organizzati e possono occuparsene solo le organizzazioni che sono nel sistema di Protezione Civile. Gli scout cercavano di regolarne la profusione e dare un senso che non fosse l’accumulo indiscriminato. Si cercava insomma di creare una vita ordinata di rapporti e di regole là dove ogni “normalità” era saltata.

Con Ada eravamo attive in due campi diversi, in modo diverso secondo i bisogni e la lettura che ne davamo. Ada aiutava i ragazzi a utilizzare internet per ritessere i contatti con le persone che avevano perso di vista da quando erano al campo. Lo faceva all’aperto, seduta sui muretti, con il suo pc portatile bianco con cui anche ci collegavamo la sera in mensa via skype con la nostra presidente per condividere informazioni e riflessioni e averne il supporto. A me segnalarono una donna straniera che rimaneva sempre in tenda. Il marito italiano le portava dalla mensa del cibo, che quasi sempre lei rifiutava. La sua tenda, con tanti posti letto, di giorno era vuota di persone; c’era solo un’altra donna che trafficava vicino al suo letto, che mi salutò e poi uscì con discrezione, comprendendo perché ero lì. La signora era a letto, ci presentammo poi lei venne fuori: una bella donna, nera, sottile, occhi grandi e una solitudine più grande, perché lei era straniera. Non conosceva nessuno, non andava in mensa. La sua casa era stata gravemente danneggiata. La ragnatela della sua vita si era lacerata e l’aveva restituita al senso di precarietà e alla solitudine di chi è strappata dalla sua comunità. Anche suo marito le era diventato un po’ estraneo, lui che poteva andare fra la gente mentre lei non osava più. E oltre il terremoto c’era stata anche un’altra grave scossa nella sua vita: suo padre, giornalista, era morto in Africa, lontano, con lei nell’impossibilità di raggiungerlo. Ero la prima persona con cui parlava, quando parlare è essenziale. Mi raccontò di aver avuto il permesso di tornare per poco tempo nella sua casa pericolante per prendere qualcosa che le serviva. Si era distesa sotto un tramezzo di legno e vi era rimasta per un po’, immaginando di essere morta, per provare com’era. Poi aveva pensato ai suoi bambini ed era venuta fuori.

Covid – 19, 2020

Arti e resilienza ai tempi della pandemia.

Quando mi accorgo che la mente di Magda la sta portando a spasso e che i suoi pensieri diventano sempre più cupi, le propongo un esercizio per ri-orientarla nel presente. Le chiedo di guardarsi intorno nella stanza, di trovare cinque oggetti di colore rosso e di nominarmeli via via, poi le chiederò cinque suoni. All’inizio mi segue, ma ben presto fa di testa sua. L’ho constatato spesso nelle persone di una certa età – me compresa – di fare le cose a proprio modo, “che è come non farle”, ha detto una scrittrice. Vedremo dove porterà. Magda si è lasciata catturare dai colori squillanti e contrastanti fra loro di alcune stoffe, mi nomina quelli. Sono con lei al telefono per il sostegno psicologico, subito mi si presenta l’immagine di ciò che mi descrive con vivezza. Mi racconta che un tempo cuciva, ora non può più perché non ci vede abbastanza e non c’è rimedio di occhiali per il suo disturbo. Così, mi spiega, ha inventato il metodo di sfrangiare le stoffe per fare un bordo; ha intenzione di accostare i colori contrastanti in due tovagliette per apparecchiarsi la tavola: un rituale di bellezza per sé sola, per celebrare il suo pasto. Questo gesto la ricollega alla forza vitale che l’ha accompagnata nella sua esistenza: la creatività e la passione che ha messo nel suo lavoro, legato alla moda, all’invenzione, alla novità; all’approfondimento e allo studio; ai materiali, ai colori, alla texture dei tessuti; la possibilità di esprimersi, di realizzare, di migliorare, in una trama di relazioni, di fare insieme che sono ancora dentro di lei. Una narrazione della sua vita che va oltre i suoi traumi personali, che ha superato con pazienza e intelligenza e l’aiuto opportuno. Mentre mi racconta si è ricollegata alla sua risorsa e lo ha fatto da sé. E’ qualcosa che ho constatato più di una volta nelle persone anziane, di ritrovare il filo di ciò di vitale che è stato ed ora è dentro di sé.
Nella pandemia, nelle difficoltà del lockdown è successo che emergessero, nelle persone che si rivolgono al servizio di supporto psicologico telefonico, risorse di creatività come attività comune, spontanea e autoremunerativa. Nell’ultimo colloquio Magda mi parlerà di suo figlio, della sua passione per una razza particolare di cani, che alleva da anni, e del suo giardino dove via via trovano posto le sepolture di ogni singolo, amato, animale, insieme alla sua ciotola e alla copertina dedicata, ognuna equidistante fra due piante di fiori dello stesso colore del loro pelo. Da madre in figlio, pura poesia visuale per me che ascolto, che compensa con immagini mentali quello che è negato alla percezione diretta.

Tessa è arrabbiata: perché l’hanno indirizzata al supporto psicologico telefonico? I suoi problemi sono solo pratici: per la pandemia le hanno chiuso il centro anziani dove faceva attività fisica mirata, indispensabile per i suoi problemi motori. Ora sente che sta perdendo funzionalità e si stanno aggiungendo problemi secondari, cosa avrà? Mi chiede. Io non lo so: non sono quel tipo di dottore. Le suggerisco le buone pratiche: avere una routine giornaliera, cercare di migliorare la forma fisica, fare qualcosa che le piace. Ma lei non se la sente di riprendere gli esercizi base, per mantenersi almeno finché non riapra il centro: la spinta le veniva dal farlo insieme agli altri, con la musica. Predisporre tutto da sé, in casa, le sembra un ostacolo insormontabile. La incoraggio a cominciare con poco, quello che si sente: non si tratta certo di allenarsi per le Olimpiadi! Questa risulta essere la parola magica: è solo casualità? Perché lei mi dice subito che alle Olimpiadi c’è stata eccome, e ha conseguito un buon successo in una disciplina artistica. Nella sua vita ha lavorato tanto con il corpo, ha sempre avuto una forma e un peso perfetto, ancora l’anno scorso si dondolava alla spalliera a testa in giù. E da qui si anima in modo positivo, va sui suoi ricordi, su quello che ha vissuto con l’entusiasmo della padronanza e dell’eccellenza. Vorrebbe condividere con me delle sue foto, che mostrano di cosa fosse capace, ma problemi tecnici ce lo impediscono (i volontari coprono il numero da cui chiamano). Si è ricollegata alla sua risorsa, che ora è lì, a disposizione, per i momenti bui.

Luca è completamente catturato dal lavoro, anche ora che è fermo per il lockdown, e non trova nessuna strategia per sfuggire alla tristezza. Anni fa studiava all’università, una facoltà che gli avrebbe permesso di esprimersi, progettare, essere creativo. Ha lasciato gli studi mettendo a frutto parte di queste competenze per un lavoro di successo, in cui però l’imperativo della produttività e del guadagno ha preso il sopravvento sul contenuto. In questo periodo in cui il lavoro è fermo, ha cercato di reagire con idee innovative che potevano aprire a nuove opportunità, ma non ha trovato l’appoggio dei suoi collaboratori per investire energie in progetti non immediatamente remunerativi. Già lo criticano per essere troppo accurato – un tempo si parlava di “dignità del proprio lavoro” – ora sembra che per loro valga solo il guadagno. Così si è arreso al fatto che l’unico orizzonte debba essere il fatturato e si obbliga a sfiancarsi per tenere i contatti con i clienti, perché tornino quando l’emergenza sarà passata. Rispetto alle sue premesse, ha rinunciato a spazi di espressione per sé, “a dare la sua forma alle cose”. La situazione della pandemia può essere anche l’occasione di fare qualcosa di diverso o di riprendere quel che è stato lasciato da parte. Lo incoraggio a fare qualcosa che sia significativo per lui, come quando partì da quella che era una sua passione e il guadagno è venuto dopo. Luca ha un progetto, in cui lo incoraggio molto, che non gli porterà reddito, ma gli consentirà di mettersi alla prova con una nuova competenza in cui esprimersi creativamente su un tema di rilevanza sociale, in questa pandemia: i piccoli esercenti del suo quartiere colpiti come lui dal lockdown, le loro difficoltà, le loro ansie, l’amore per il loro lavoro che è il loro mondo, in cui si esprimono, non solo questione di fatturato: il loro sentire in cui lui si identifica. Supera il blocco delle sue idee: sa che deve perseguirle da solo e farlo gli dà solidità. Realizza dei brevi filmati in cui i proprietari delle attività si raccontano e pubblica il montaggio sul suo sito. Lo guardo per dirgli cosa ne penso: lo trovo bello e commovente. Riceve molti riscontri positivi dai commercianti, che sono rimasti entusiasti del risultato. Luca ha anche intrecciato tante relazioni nel realizzare il filmato, e ha elaborato la sua storia ascoltando quelle degli altri. Ora speriamo che il lavoro non riprenda il sopravvento e che resti a Luca una consapevolezza più generativa dell’avere acquisito una nuova competenza.

Daniele ha una situazione complicata dalla pandemia che si è aggiunta ad una sua patologia, che diventa invalidante quando è turbato emotivamente, il che avviene spesso per un cumulo di criticità che vive sul lavoro. A volte si sente squalificato anche dal proprio medico circa le difficoltà che gli procura la sua patologia. In una verifica a distanza di tempo le questioni lavorative sono in via di soluzione, e conseguentemente il disturbo procuratogli dalla sua patologia è diventato tollerabile: ha ottenuto solidarietà sul lavoro, sono stati riconosciuti i soprusi nei suoi confronti e sta uscendo dall’incubo. La risorsa personale su cui ha potuto contare nella tempesta è stata una passione importante: il realizzare sculture, attività che poteva assorbirlo per ore liberandolo dai brutti pensieri. Me ne aveva mostrata una, era davvero notevole. Non ha nessuna ambizione di esporre, mi aveva detto, gli faceva piacere regalare le sue opere a chi mostrava di apprezzarle.

Licia: portano via in ospedale suo marito, forse ha il covid, e le chiedono se vuole ricoverarsi anche lei. No, non è come nella peste di Alessandro Manzoni “ venite a prendermi stasera”: lei deve restare per badare a lui e portargli la biancheria. La sua vita continua e ne fa il punto, con me, intanto che i nostri incontri telefonici si susseguono ravvicinati: ha bisogno di essere sostenuta, per affrontare le notizie che le verranno dall’ospedale. Ha già avuto due lutti recentissimi: i genitori di lui, che hanno infettato anche suo marito.
Ricorda il momento preciso in cui il suocero ha starnutito, mentre sono al telefono “vedo “ le goccioline che viaggiano nell’aria. Sin da piccola si è occupata della madre malata, e poi ha continuato ad occuparsi degli altri. L’ansia di oggi ha origini lontane. Ho l’immagine di un edificio che ospita una comunità in cui ci si prende cura delle persone, il lavoro cui era votata. Poi cambiò tutto: nuovi dirigenti, nuovi progetti, veniva criticata: quello che faceva bene, in cui credeva, non valeva più niente. Questo le provocava forte ansia e tristezza. Di sé sa che sta bene solo se può essere utile agli altri, quando il suo compito è finito, crolla. Sa che potrebbe dover affrontare cattive notizie sulla salute del marito, ma conosce anche le sue risorse: è forte, risoluta, trova le soluzioni, ama la gente e conosce tante persone, se può le aiuta. Aspetta notizie e intanto è attiva, per non pensarci troppo: a casa mette in ordine, fa la lavatrice, dà da mangiare ai cani che l’aiutano con la loro vivacità. Il più grande capisce il suo stato d’animo e le sta vicino, l’altro, più giovane, vuole giocare. E’ organizzata, si sente con le amiche, aiuta una vicina che non sta bene. Un episodio più definito mi si condensa in immagine: il vicino ha fatto la torta e gliene offre una fetta, attraverso i giardini confinanti, tutti e due con le mascherine. Suo marito è già stato male, pochi anni fa ha rischiato la vita. Se ne è tirato fuori ma da allora ha bisogno di appoggiarsi a lei, non ha senso pratico e lei sente che ha tutto sulle sue spalle, che regge tutto. Ammette che le sembra di stare bene quando può aiutare gli altri, ma ha anche accettato che non le dessero il giusto valore. Siamo all’ultimo incontro e prima di salutarci vuol dirmi un’ultima cosa: da tempo si sente come il protagonista di quel film in cui lui assume su di sé tutto il male che è nel mondo, accostando la narrazione di sé alla settima arte. Mi ringrazia e la ringrazio a mia volta di aver condiviso la sua storia con me.

Il colloquio a distanza, in cui non si vede l’altro, fa perdere tanto della parte non verbale della comunicazione, esaltandone però quel che rimane, come avviene per ogni vincolo, e cioè gli altri aspetti non verbali; aumenta l’attenzione alle parole, l’incisività delle vicende raccontate, degli stati d’animo, la voce, le immagini che involontariamente si formano del racconto.